Il Nobel a Bob Dylan

di:
Luigi Ciorciolini

No, scusate se non vengo ma c’ho da fa’…

Il Nobel per la Letteratura 2016 è andato a Bob Dylan per aver “creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana”.
Da qua, da questa sintetica notizia battuta dalle agenzie stampa di tutto il mondo, è cominciata la sarabanda dei commenti pro e contro. Chi scrive è assolutamente pro, lo è da quando bambino dodicenne, avvezzo al folk politico americano degli anni della Depressione, alle ricerche di Alan Lomax e, evidentemente, ai romanzi di Steinbeck e Faulkner, ha avuto la ventura di ascoltare i primi dischi Dylan, di amarlo senza riserve, e di seguirne le vicende.

Cominciamo a evitare le trappole del pensiero che fanno a pensare a Dylan come un “poeta” perché giustamente i poeti hanno motivo di risentirsi e di dire: “ma che cavolo c’entra un cantante pop con la poesia?” e hanno evidentemente ragione. E poi ricordate le stupidissime discussioni quando misero nelle antologie di poesia Fabrizio De Andrè o Mogol? Sono stato felice anche allora e lo sono adesso e lo sono perché adoro il divertimento che mi provocano i radical-chic che dicono di apprezzare l’ibridazione post moderna (si pronuncia con la r arrotata e un po’ di birignao) e poi si indignano perché non capiscono quando capita loro di trovarsele davanti. Ma davvero credete che sia un caso che in questo paese abbiano avuto e hanno ministri della Cultura della portata della Bono Parrino (quella dei giacimenti culturali), Veltroni, Melandri, Urbani, Bondi, Galan e Franceschini… No, davvero, parliamone.

Dai, stiamo sul pezzo e il pezzo è che Dylan nasce cantante folk e il folk americano, come il folk di tutto il mondo, è il risultato, in perenne mutazione, del crogiolo di razze, usanze e storie (vale anche per l’Italia) che lo attraversano; ha degli stilemi ricorrenti che si introiettano e si adattano alle situazioni in cui lo si suona: festività contadine, riti di passaggio (matrimoni in particolare ma anche funerali e battesimi) e, principalmente si suonano e si cantano insieme. Chi ha voglia si aggiunge al gruppo e suona e canta: le competenze, se non ci sono, verranno. Come dice Raiz degli Almamegretta (Anima Migrante, in latino), un musicista: “La musica ebraica non esiste in sé: esiste la cultura degli ebrei di un luogo che si è sviluppata nel paese che li ospitava”.

Qua il ragazzo, dico Dylan, canta una delle sue prime ballad (termine di derivazione medioevale) di non amore (come avrebbe detto Sklovskij), tema che lo ha accompagnato tutta la vita. In questo brano suonano, tra gli altri, Eric Clapton, Ron Wood e Henry Spinetti. Ma parliamo di questo “accompagnare” e cosa vuol dire nel folk.

Consiglierei di ascoltarlo più di una volta: la voce del giovanissimo Morrison canta l’armonia e tutti gli altri musicisti (professionisti esemplari di una formazione esperta di musica folkloristica irlandese e dei suoi strumenti preferiti) esegue delle linee armoniche ognuna diversa dall’altra ma ognuna complementare a tutte le altre. I musicisti, come nella tradizione popolare (proprio pop e mi dispiace per gli spocchiosi), suonano insieme, liberi esecutori tenuti uniti solo dal ritmo a dal mood del motivo. Una band (banda) che non è una fanfara e neanche quella rock: proprio una banda come quelle giovanili di amici, di compagnons come furono Enrico d’Inghilterra e Falstaff, come lo sono i contadini che si radunano a festeggiar maggio o lo spirito del grano rimasto nell’ultimo covone lasciato intatto alla fine della mietitura (per esempio John Barleycorn must die incisa dai Traffic considerati una band progressiv dai catalogatori)

È così semplice ma così difficile da capire per chi ha bisogno di categorizzare il mondo per gestirlo e non vuole viverlo: eppure basterebbe ascoltare con le orecchie e non coi pregiudizi. Ed è un discorso in divenire: i canti delle mondine ci sono ancora nonostante il mondo che li ha prodotti sia scomparso e la taranta non è più la conquista dei contadini per aprire un tempo di libertà dal lavoro e per di più pagato dal padrone (come ci aiutò a capire Ernesto de Martino) ma è comunque un fenomeno collettivo di vitalità. Quello di cui parliamo dunque non ha nulla a che vedere con le esecuzioni rigorose, calligrafiche e direttoriali della musica classica dove ogni singolo musicista suona per il direttore: qua si suona la libertà e si suona veramente insieme agli altri. Solo sognata magari (e il sogno pagato anche duramente perché la libertà fa tanta paura e non solo agli spocchiosi) ma pur sempre libertà.

E questo è un dato fondamentale che da noi deprivati culturali non è comprensibile: il radunarsi per suonare insieme, per suonare pezzi che sono delle jam session ognuna unica e irripetibile pur assomigliandosi tutte ed è difficile capire che il folk, con i suoi pochi o pochissimi accordi (due, nel saltarello romano e due in Feelin’ allright di Winwood) è l’erede dell’epica orale contadina, del carro di Tespi, delle compagnie vaganti di commedianti, dei carri degli zingari, dei poeti estemporanei che declamavano (declamare è qualcosa che sta tra il recitare e il cantare: che qualcuno ricorda i talkin’ blues di Dylan?) in competizione tra loro alle feste agricole o ai matrimoni, ai gruppi di stornellatori che passavano di trattoria in trattoria. Il tutto declinato all’americana dove, oltre quello detto, c’è l’abitudine – tutta americana – di ospitare e andare ospiti nei continui concerti dal vivo per eseguire ogni volta in modo nuovo e inaspettato pezzi conosciuti.

Allora, a un certo punto, Dylan che aveva raccolto l’eredità di Woody Guthrie e come tale amato dai radical chic di qua e di là dell’Oceano decide di fare altro, riesplorando il folk con la chitarra elettrica. Tutti indignati ma lui va per la sua strada

 

Every step of the way we walk the line
your days are numbered, so are mine
time is piling’up, we struggle and we scrape
we’re alla boxed in, nowhere to escape 

City’s just a jungle; more games to play
Trapped in the heart of it, trying’ to get away
I was raised in the country, I been working’ in the town
I been in trouble ever since I set my suitcase down 

Got nothing’ for you, I had nothing’ before
Don’t even have anything for myself anymore
Sky full of fire, pain poring’ down
Nothing you can sell me, I’ll see you around 

All my powers of expression and thoughts so sublime
Could never do you justice in reason or rhyme
Only one thing I did wrong
Stayed in Mississippi a day too long

(“Solo una cosa ho fatta di sbagliato: sono rimasto nello stesso posto troppo a lungo”. La versione più bella è nei Bootleg).

E la strada lo porta a organizzare una tournée di concerti che comincerà il 30 ottobre 1975 e terminerà il 25 maggio 1976. In totale 57 concerti di quello che fu chiamato il Rolling Thunder Revue. Una carovana di musicisti in giro per l’America. In questa fase preparatoria della tournée autunnale, Dylan non mancò di radunare quanti più musicisti, la maggior parte amici personali, gli fosse possibile, tra cui naturalmente Joan Baez. Secondo il racconto le cronache dei partecipanti, il gruppo non ebbe neppure modo di provare a sufficienza. In realtà i musicisti non sapevano quale fosse lo scopo preciso di quelle riunioni, se non che erano stati chiamati a provare nuove versioni delle canzoni di Dylan.

Lo scopo era quello di stare il più possibile vicino alla gente con una struttura leggerissima, anche se alla fine – con l’assunzione di un numero sempre maggiore di star del rock and roll – il cast finì per diventare una carovana come quella dei circhi. Anche il poeta Allen Ginsberg divenne un membro della compagnia e la partecipazione di Ginsberg fu compresa a fondo dagli spocchiosi solo dopo il concerto tenuto alla prigione in cui era detenuto il pugile Robin Carter, diventato come nell’epica popolare simbolo dell’ingiustizia e protagonista del brano Hurricane. Al gruppo, a sorpresa durante un concerto, si unì Joni Mitchell che decise di rimanere aggregata alla carovana anche nelle serate successive: come in una festa si sale e si scende dal palco un po’ come si vuole.

Alla fine di quasi tutti i concerti, che viaggiavano sulle quattro ore di durata, l’intera band si riuniva insieme sul palco per la parte finale che si chiudeva solitamente con un’esecuzione collettiva del brano di Woody Guthrie This land is your land.

(Da brividi, vero? Come diceva sopra Raiz, è il luogo, l’occasione, gli amici con cui ti muovi e il contesto sociale che fanno la canzone e la musica in genere e, non so perché, ma sono convinto che de Martino avrebbe approvato).

Musica, festa, suonare insieme, impegno, arti performative, memoria delle radici…c’è tutto questo ma c’è anche altro. Ogni singolo spettacolo era diverso da quello che lo aveva preceduto e da quello che lo avrebbe seguito e ogni brano veniva ogni volta eseguito in maniera diversa. Una perenne metamorfosi creativa che andava avanti con l’andare avanti del tour. Se si ha la pazienza di ascoltare in successione su youtube tutti le esecuzioni di It’s all over now, baby blue eseguite qua in Italia, con Mark Knopfler, ci si rende conto di questo discorso. Oppure la versione con Van Morrison, sempre dal vivo, di Knocking on the Heaven’s door dove non sanno neanche come finire il brano perché non è mai stato provato prima. E chi se ne frega se il brano non è perfettino: è l’esecuzione in quel momento, l’Hic et Nunc tradotto in termini popolari, che conta.

Beh, quelli del Nobel lo hanno capito, gli spocchiosi no.