Bohemian Rhapsody

di:
Giuseppe Sansonna

Freak sensuale e diabolico, infantile e spietato.
Dentoni da cartoon e sguardo da fauno assassino, trangugiatore postmoderno dei fratelli Marx e del melodramma, del metrosexual Rodolfo Valentino, e della sua distorsione parodica.
Straniero sempre, soprattutto a se stesso, dall’adolescenza da Little Richard zoroastriano di Zanzibar, alla metamorfosi in elfo di Kensigton dalle orecchie puntute, evocato da chissà quale druido.
Per assurgere poi a Regina baffuta e incoronata, mantello lucente e pantaloni da olimpionico, al cospetto di masse adoranti. Da incantare, come i grandi campioni sportivi, trasformando ogni palco del mondo nell’ultimo teatro della vita. Il match con se stesso, condotto fino allo spasmo, per coronare il fine ultimo del pop: piacere a ogni singolo essere vivente, e restare per sempre, nelle retine, nelle orecchie e nei cuori del mondo. Mercury, il dio pagano del commercio, ammaliatore di milioni di sudditi, sedotti a colpi di gorgheggi bambini, al termine di performance sempre più simili ad amplessi infiniti, eliogabalici come le sue notti.
La prova più estrema, il Live Aid cuspide degli anni Ottanta, immerso nell’oceano umano della Wembley domestica. Apoteosi pelosetta della beneficenza mondiale, le lacrime da coccodrilli sazi sull’Africa e la cattiva coscienza occidentale lenita a colpi di bonifico. Un trionfo, con il tassametro delle offerte da casa che schizza impazzito, sulle note e i battimani di Radio Ga Ga.
Per diventare poi uno spettro, colpito dalla peste del suo tempo, contrappasso del suo eccesso di vita. Capace di coreografare, morendo, un’uscita di scena fiammeggiante e interminabile.
Un’esistenza struggente, bigger than every life, imbevuta di un kitsch estremo, smodato e divino come il suo talento.
Douglas Sirk, in combutta con Fassbinder, ne avrebbe fatto un capolavoro.
E invece niente.