QUEL MISTERIOSO AMLETO CUBANO
di:Timia Edizioni
Tratto dall’articolo di Italiana May-August 2017 | Number 3 – pagina 14.
L’ISPANOROMANESCO DI TOMAS MILIAN AVEVA L’ANIMA DEL BELLI E LO SPIRITO DEL MONNEZZA
Estratto dal libro di Giuseppe Sansonna
The Cuban Hamlet, Timia Edizioni, 2017
Nei primi anni Sessanta Tomas Milian doveva apparire, e forse in parte lo era davvero, proprio come Toby Dammit, il bellissimo maudit dal passato cupo e misterioso protagonista dell’episodio felliniano di Tre passi nel delirio, incline a “scommettere la testa col diavolo”, come nel racconto di Edgar Allan Poe da cui era tratto. Terrorizzato dall’esattezza del presagio felliniano, Tomas si era rifiutato di interpretarlo. Finirà col viverlo in pieno, nei decenni a seguire, dimenticando fin troppo in fretta i trascorsi all’Actors Studio e il proprio aspetto da semidio perturbante, dalla bellezza luciferina, per darsi in pasto senza remore al baraccone chiassoso del western nostrano, una parabola irreversibile, per quanto remunerativa. Ma come divenne improvvisamente un cangaceiro sbucato da un incubo lisergico di Glauber Ro-cha: barbuto, col cappellaccio, zavorrato di monili e cartucciere? O un peon scanzonato, un sottoproletario, un povero Cristo in bilico tra Che Guevara e Masaniello? Che fine aveva fatto il borghese ben rasato, pallido, sempre elegante, dei suoi esordi?
“Vivevo in una capannetta ben arredata, immersa nel bosco del Pincio e la stampa me dipingeva corno un bohemien cubano. A casa mia si entrava da un sentiero, che partiva da Via Margutta; Fellini abitava poco distante ed era curiosissimo, su mi vida. Chiedeva sempre a Bernardino Zapponi, nostro comune amico, corno passavo le mie giornate. E, soprattutto, le mie notti brave.
Infatti, me propose la parte de Toby Dammit, prima de chiamare Terence Stamp. Ma rifiutai: el copione era spaventoso, jettatorio, da film horror. Era arrivato il 1968 ed io ero già diventato l’eroe messicano dei tortilla western, con un cachet molto alto. Non potevo spaventare el mio pubblico. A metà degli anni Sessanta me libero finalmente del contratto con Cristaldi, che me imponeva ai grandi autoroni intellettuali del cinema italiano, ma me dava du’ li re. Volevo cominciare a gestirme: sapevo che avrei guadagnato molto de più. Dopo l’entrata in scena de Sergio Leone, il western italiano cominciava ad avere un successo mondiale. Chiesi alla mia agente de diffondere la voce che Tomas Milian avrebbe accettato un ruolo da pistolero quasi gratis. Molti sorrisero, tra i cinematografari seduti a piazza del Popolo, ai tavolini de Canova e Rosati. Ma qualcuno se incuriosì, ecitato dalla mia offerta. Pensò che forse quell’antipatico borghese, bono pe fa’ l’intellettuale da salotto, poteva trasformarse in un bandido, con tanto de pelle ambrata e cinturone. E così fu. Dovevo chiudere un ciclo, mettermi alle spalle le facce pensose in cui me avevano congelato per troppo tempo. Volevo smettere di corrugare la fronte, oppresso dalle mie incomunicabili nevrosi interiori. Non vedevo l’ora di togliermi di dosso quei cappotti che calzavano male, de due o tre taglie più grandi, porché se suppone che l’intellettuale non perde tempo per pensare a vestirse bene. E uno che guida la Renault 4 rossa, per capirci. lo, per dire, ho sempre preferito la Rolls Royce. Aniway, volevo che le mie emozioni esplodessero, se vedessero bene, in cinemascope, seducessero il publico. Quando ho cominciato a fare i western, ho capito che dovevo inventare subito un personaggio riconoscibile. Il publico popolare è corno un bambino, ha bisogno che glie racconti sempre la stessa favola. In Italia, a Roma, all’epoca, c’erano le baracche, il sottosviluppo, come in certe zone della Spagna, del Medio Oriente o della Turchia. O dell’Africa e del Sudamerica.
Il terso mondo a cui guardavamo, facendo i nostri film, era quello: posti dove el sotto proletariate aspettava el supereroe, che doveva esse un bounty killer anglosassone, duro, inespressivo, de acciaio. La trama era sempre la stessa: questo tizio gelido andava a caccia de un poveraccio messicano, delinquente de mezza tacca. Ovvero io, che me chiamavo Cuchillo. Che vuol dire coltello, perché nei film non avevo i soldi per permettermi una Colt e me dovevo arrangiare con l’abilità de mano e de lama. I poveri, al cinema, tifavano por el campesino diseredato. Però, allo stesso tempo, sotto sotto, ammiravano el gringo nordico, che arrivava tra le baracche come un alieno, con le sue armi, le sue macchine, i suoi bei vestiti. Ne avevano rispetto, de un personaggio così, cercavano de imitarlo. Rappresentava quello che non erano e che desideravano: un mondo ricco, efficiente, organissato. Poteva ave’ la faccia de Ugo Pagliai, Franco Nero o Lee van Cleef. Alla fine se alleava con me, con il peon, per sconfiggere il potere locale, sempre muy corrotto. Il bello di quei film è che potevo finalmente doppiarme da solo, col mio linguaggio ispano romanesco. Qualche critico lo eh i amò itagnolo. Battute come ‘mortacci tua, vita mea’ avevano l’anima del Belli, ovvero lo spirito del Monnezza che già me stava nascendo dentro. Che non è altro che un Cuchillo de borgata romana. Nico il Pirata, il commissario, era invece un misto de Cuchillo e de Monnezza. Ma ci avevo messo anche l’amore per la Legge dura e leale, dell’uomo del Nord. Due personaggi in uno: ecco perché el successo è durato tanto a lungo.”
Giuseppe Sansonna (1977) è autore di cortometraggi e documentari, fra cui, oltre a The Cuban Hamlet (da cui è tratta l’intervista a Tomas Milian), il fortunato Zemanlandia (sul controverso allenatore Zdenek Zeman), Tracce di Bene (su Carmelo Bene), Framme11ti di Nairobi (su una bidonville kenyana), A perdifiato (su Michele Lacerenza, il trombettista dei western di Sergio Leone) e Lo sceicco di Castellaneta (sul mito di Rodolfo Valentino). Collabora con Rai Italia, quattro canali televisivi multipiattaforma distribuiti da Rai COM a livello mondiale, con programmi autoprodotti e il meglio della programmazione Rai I, Rai 2, Rai 3, Rai Sport e Rai News 24.