Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità

di:
Gabriele Tomasi

Il potere soggiogatore delle immagini e i suoi effetti nella società: spettacolarizzazione del dolore e rifiuto dell’identità in Persona di Bergman

Dalla seconda metà del Novecento, la larga diffusione dei mass media ha mutato profondamente il sistema sociale in cui viviamo. Mediante il cinema e soprattutto la televisione, il potere delle immagini è cresciuto a dismisura. Uno dei primi intellettuali a parlare di spettacolarizzazione delle immagini è stato Guy Debord, fondatore del Situazionismo.

«Tutta la vita delle società nelle quali predominando le condizioni moderne della produzione si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (La società dello spettacolo, G. Debord).

Lo spettacolo si diffonde in ogni ambito del reale, diventandone parte indistinguibile. Per osservarne i risultati basterebbe accendere la tv durante un pomeriggio infrasettimanale; la maggioranza dei canali ci porrebbe davanti a un bivio. Da una parte avremmo salotti affollati da opinionisti e soubrettes, dall’altra inchieste e delitti enunciati dalla voce di un giornalista. In entrambi i casi, non si tratta solamente di testimonianza, ma di una vera e propria narrazione. Tanto nei talk show quanto negli eventi di cronaca nera, appare evidente una trama di fondo che tiene incollati gli spettatori allo schermo, garantendo il picco di ascolti. Rimanere costantemente aggiornati sulla vita privata delle celebrità o sullo stallo degli inquirenti riguardo la ricerca dell’assassino non apporta nessun contributo allo spettatore, eppure determina e scandisce le sue giornate.
La tv del dolore non è figlia dei nostri tempi, il fenomeno della spettacolarizzazione nasce nei decenni passati. La tragedia di Vermicino è stata il primo evento ad aver tenuto incollati allo schermo milioni di italiani. Era il 1981 quando gli spettatori seguirono con ossessiva apprensione e curiosità la drammatica storia di Alfredino Rampi. A livello internazionale, invece, è facile identificare l’episodio più noto nell’attentato alle Torri Gemelle.
Dunque, occorre domandarsi quali siano i motivi che spingono un individuo ad un’alienazione che appare tanto genuina. In Rimorso di incoscienza (1963), McLuhan collega la visione dei media caldi e freddi quali estensioni sensoriali e corporali dell’individuo al malessere che lo stesso prova nel farne uso.

“Con il telegrafo, l’uomo occidentale ha iniziato ad allungare i suoi nervi fuori dal proprio corpo. Le tecnologie precedenti erano state estensioni di organi fisici: la ruota è un prolungamento dei piedi; le mura della città sono un’esteriorizzazione collettiva della pelle. I media elettronici, invece, sono estensioni del sistema nervoso centrale, ossia un ambito inclusivo e simultaneo. A partire dal telegrafo, abbiamo esteso il cervello e i nervi dell’uomo in tutto il globo. […] Di conseguenza, l’era elettronica comporta un malessere totale, come quello che potrebbe provare una persona che abbia il cervello fuori dalla scatola cranica. Siamo diventati particolarmente vulnerabili”.

Ed ancora:

“Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono”.

Lo spettatore ricopre un ruolo totalmente passivo e alienato: più egli contempla, meno vive; più accetta le immagini dominanti, meno comprende i propri desideri e la propria esistenza.
Contemplazione passiva degli orrori del mondo e perdita d’identità sono due elementi che caratterizzano Persona, capolavoro cinematografico di Ingmar Bergman.
L’attrice teatrale Elisabeth Vogler, durante la rappresentazione dell’Elettra, cade vittima di un totale mutismo. Condotta presso una clinica psichiatrica, si scopre che tale sintomo sia autoindotto. Il silenzio di Elisabeth è segno del rifiuto delle convenzioni e degli orrori del mondo, conseguentemente della propria persona. Al solo accenno della propria immagine di sé, vengono scoperchiate miriadi di incertezze, pulsioni distruttive; infine, la violenza umana sia spirituale che fisica, sia personale che collettiva. Tutto ciò viene reso manifesto attraverso le immagini. Nelle ore di solitudine trascorse all’interno della camera ospedaliera, Elisabeth subisce gli orrori della Storia: un notiziario trasmette un servizio sulla guerra in Vietnam, dove un monaco si dà al fuoco; una foto riproduce un gruppo di ebrei deportati.
Gli spazi della clinica rappresenteranno un ostacolo nei confronti della depersonalizzazione ricercata dalla protagonista, in quanto obbediscono esplicitamente a regole sociali: medico e paziente sono due figure ben distinte. Per ovviare a ciò, la dottoressa curante inviterà Elisabeth a trascorrere un periodo di riposo presso la sua casa in riva al mare, affiancandole l’infermiera Alma.
Figura totalmente opposta a quella della paziente, Alma sarà un fiume in piena di confessioni. Il tradimento di Elisabeth – la quale confesserà, tramite lettera, i segreti di Alma alla dottoressa curante – causerà una frattura insanabile tra le due donne. Prima dell’addio, però, ci sarà modo di veder manifesta tutta la violenza personale di cui sopra accennato.
Il titolo dell’opera deriva dal latino dramatis persona, locuzione che indica la maschera teatrale. L’identità, piuttosto che persa, appare così ambigua e fluida. Fare violenza sull’altra equivale a fare violenza a se stessa: come Elisabeth ha tradito Alma, questa tradirà Elisabeth leggendo nella medesima lettera le sue più profonde preoccupazioni e dando vita ad una vera e propria inquisizione.

Accadde una sera a una festa, vero? Vi era frastuono e confusione… verso le prime ore del mattino qualcuno disse: “Elizabeth, ora il tuo campionario è quasi completo, come artista e come donna, ma ti manca la maternità”. Tu ridesti perché la cosa ti sembrò ridicola ma poi ti accorgesti che quelle parole ti ossessionavano, l’inquietudine aumentò finché ti decidesti ad avere un figlio. Volevi essere madre, però quando rimanesti incinta ne avesti paura. Paura delle responsabilità, paura di legarti a qualcuno, paura di morire, paura del dolore, paura di abbandonare il teatro, paura del tuo corpo deformato. Eppure continuasti la parte… la parte della madre felice in attesa di un figlio.

In una celebre scena, il volto delle due protagoniste si fonde, così da mettere in mostra il lato peggiore di ognuna. La concezione del volto come maschera è intrinseca in Elisabeth, la quale svolge il mestiere di attrice teatrale. Attraverso il suo personaggio, la visione autoriale intende denunciare la falsità della parola, rifiutandola in favore di un ritorno al gesto teatrale. Ad essere testimone di ciò è ancora una volta lo schermo, ostacolo multimediale tanto attraente quanto alienante e separatore. Il volto proiettato di Elisabeth sarà impassibile come la sua persona, oramai distaccata dalle proprie responsabilità familiare e sociali. Elisabeth rifiuta la Storia e contemporaneamente il ruolo di moglie e di madre. Emblematiche, a tal riguardo, sono la scena iniziale e finale della pellicola. Il figlio appare in tutta la sua solitudine, abbandonato s’un letto d’ospedale. Della madre non gli rimane altro che la proiezione del volto impassibile, freddo e fuori fuoco. Il gesto da lui compiuto – protenderà la mano quasi a voler carezzare la proiezione – ci dà segno della venerazione provata nei confronti di Elisabeth. Così, la sua figura è l’unica a saper sostituire il dolore con un amore incondizionato, a saper abbattere la maschera che fagocita identità e sentimenti. Per il resto, ogni cosa è sinonimo di farsa: l’individuo, la società, lo stesso media televisivo e cinematografico. Gli intermezzi subliminali – una mano bucata da un chioso, una pellicola che brucia, un pene eretto – supportano la tesi e richiamano esplicitamente quello che fu un manifesto del Surrealismo come Le chien andalou di Buñuel.