Lost in translation (Sofia Coppola) e Her (Spike Jonze)
di:Flavia Massimi
“Bob e Charlotte costruiscono una parentesi spazio-temporale fondata sul senso di umanità in una dimensione sociale disumanizzante. Una topografia delle emozioni nel deserto del reale. Questa è antropologia cinematografica” (Matteo Bittanti)
Lost in translation è un film ambientato nella chiassosa ed avanzatissima Tokyo, diretto da Sofia Coppola. La storia è incentrata sull’incontro tra un uomo e una donna. Da una parte la giovane Charlotte (Scarlett Johansson) che si trova in Giappone insieme al fidanzato per ragioni lavorative di quest’ultimo. Dall’altra il maturo Bob (Bill Murray), un celebre attore di mezza età, in piena crisi esistenziale che si trova a Tokyo per girare uno spot pubblicitario. Entrambi soli, entrambi persi tra le vie di una città sconosciuta e poco confortevole. Soggiornano nello stesso albergo, si incontrano e da lì hanno inizio le loro giornate di condiviso isolamento. Tra i due vi è una complicità straordinaria e non mossa da un’attrazione sessuale quanto da un’unione di anime sospese e solitarie. Ognuno di loro cerca di dare sostegno all’altro, parlando e facendo cose mai fatte prima. L’ambiguità relazionale che invade tutta la vicenda è calzante con l’idea della regista che non vuole scadere nella solita rappresentazione amorosa. Riesce anzi a far capire l’importanza della nostra interiorità che non è assolutamente definita dall’età anagrafica. Due perfetti sconosciuti possono trovare un territorio comune dove camminare e dialogare senza filtri o imbarazzi. Entrambi escogitano un modo per poter andare avanti, per trovare una ragione alla propria esistenza così effimera e precaria, una soluzione per sfuggire alla solitudine.
“Da un lato lo straniamento di chi si trova in un Paese di cui non conosce la lingua. Dall’altro il nascere di un sentimento che, una volta tanto al cinema, non arriva al rapporto sessuale. La Coppola ha girato in sequenza (cosa piuttosto rara) per far sì che i due protagonisti (che non si conoscevano come i personaggi da loro interpretati) compissero nella realtà un percorso analogo a quello della finzione. L’esito è raffinato e brillante al contempo” (Virginia Campione).
Entrambi sfuggono dalle loro condizioni di partenza, l’uomo è sposato ma sente che la sua vita è arrivata a permearsi di dubbi e incertezze. Sua moglie, pur non vedendola mai, ci appare come una donna fredda e non troppo attenta alle problematiche del marito. La ragazza invece si potrebbe definire “né carne né pesce”, si trova in un limbo di incertezze sul suo futuro, sia di coppia che lavorativo. Il suo ragazzo è distante da lei e dalle sue necessità, molto egocentrico e indifferente alla solitudine provata dalla protagonista.
“E, mentre i dubbi si appianano ma manca il coraggio, la regia ci mostra un assaggio di quello che sarebbe stato o forse solo una finestra sulle infinite possibilità che la vita offre, quando non è chiara quale sia la strada che si vuole intraprendere. Il tutto corredato da una colonna sonora sognante e da una fotografia che indugia sulle sfumature della notte, guarda caso il momento della giornata riservato ai sogni” (Virginia Campione).
Un’altra opera cinematografica che rappresenta perfettamente questo sentimento di isolamento esistenziale e continuativo è sicuramente Her; capolavoro diretto da Spike Jonze e interpretato da Joaquin Phoenix. Una vicenda dal retrogusto malinconico, un viaggio all’interno di una mente solitario e bisognoso di amore. Siamo immersi in una Los Angeles proiettata nel futuro: un uomo, Theodore, divorzia con la moglie, l’amore della sua vita, e cade nello sconforto più profondo. Trascorre le sue giornate tra lavoro, giochi di simulazione e amicizie aleatorie, muovendosi fra gli arredi minimalisti e monocolore del suo appartamento. Nel mondo frenetico e all’avanguardia sta spopolando una tecnologia in grado di rendere un semplice assistente vocale una persona reale (Samantha), con pensieri e sentimenti prettamente umani, il cosiddetto Sistema Os1, basato sull’intelligenza artificiale. Scettico e demotivato, Theodore, tenta comunque questa strada e da lì ha inizio una vera e propria storia d’amore. Anche qui il regista trascende dal sesso carnale, ponendo l’attenzione sull’importanza della relazione basata sul dialogo e la condivisione. Sicuramente non convenzionale e ad ora decisamente inimmaginabile. L’uomo passa ogni minuto con la sua “ragazza virtuale”, riscoprendo la gioia dell’innamoramento; le confessa i propri segreti, parla delle proprie delusioni e piano piano comincia a nutrire un vero e proprio sentimento, ricco anche di passione (in un certo senso). Lei, dal canto suo, sembra comprenderlo più di chiunque altro. Il non vedersi e l’inesistenza della donna non sono più degli ostacoli, anzi, divengono l’elemento chiave per muovere l’ingranaggio dell’amore, in un mondo così lontano da quello che conosciamo convenzionalmente e che forse sta mutando anche per noi, con l’avanzare della tecnologia. Trascorrono insieme momenti molto intensi; lo spettatore, inizialmente scettico, segue la vicenda e si avvicina sempre di più alle sensazioni effimere dell’uomo. L’amore provato e di conseguenza trasmesso diviene quasi “normale”, data l’estrema vicinanza tra i due. Dall’altra parte notiamo come con l’andare del tempo, purtroppo, Theodore in ogni suo aspetto si sta allontanando dai rapporti umani e dalla vera condivisione. La sua paura del reale e allo stesso tempo quella di rimanere solo creano il binomio perfetto in un mondo dominato dalla tecnologia, al punto di sostituire le persone con una “Siri” del futuro. “La regia di Spike Jonze insiste nel sottolineare il contrasto fra il bisogno umano di intimità e la vastità dell’universo che circonda le persone, vittime di una progressiva incomunicabilità che non sembra trovare soluzione nel ricorso alle macchine, suggerendo che sia proprio l’urgenza della gioia mista alle infinite combinazioni possibili la vera causa della solitudine, in un mondo in cui si può avere tutto e proprio per questo si rischia di non ottenere niente.” (Virginia Campione)