Lou Reed e il cinema
di:Giuseppe Sansonna
Walk on the wild side, forse il brano più celebre di Lou Reed, si snoda sinuoso, come uno smisurato carrello cinematografico.
Steso a lambire il versante più oscuro dei marciapiedi di New York, flautato nel microfono con suadenza di velluto, da imbonitore molto partecipe, dell’inferno seducente che promette. Elenca le superstar in cartellone, le regine della Factory, di una Hollywood parallela e rovesciata, orgogliosamente prostituita e strafatta. Una scintillante fabbrica di incubi rivelatori, caricature struggenti delle dive dello Star System. Lou Reed riserva una strofa per ognuna, cominciando da Holly Woodlawn, attrice transgender di origine portoricana.
Partito dalla Florida come uomo, si strappa le sopracciglia lungo il cammino, depilandosi le gambe, per diventare donna, e opera d’arte vivente, nelle mani di Warhol. Superstar di Trash e Women in Revolt, diretti dal warholiano Paul Morrissey. Candy, invece, transessuale newyorchese, appare nel film Flesh, altra opera di Morrissey. Dietro il nomignolo Litte Joe si nasconde Joe Dallesandro, modello e prostituto: una specie di Helmut Berger all’idrogeno, midnight cowboy luciferino, destinato ad approdare a passare dall’avanguardia warholiana ad un cinema più istituzioale. A seguirlo, sulla cattiva strada cantata da Reed, c’è anche Joe Campbell, citato nella canzone come Sugar Plum Fairy, come il personaggio interpretato in My Hustler, film di Andy Warhol. Prima che le ragazze di colore cantino un altro giro di doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo il carrello sfuma su Jackie Curtis, attore, poeta e commediografo transgender ucciso nel 1985 da un’overdose di eroina, drag queen capace di influenzare anche lo stile a venire di David Bowie. Sul wild side di Reed sfila una Hall of fame dissonante, di icone scellerate, ustionate dalla vampata di gloria che gli ha regalato Warhol. Con la loro bulimia di stupefacenti, il sesso rapinoso, più o meno mercenario, da divorare in fretta, in cessi fetidi o nel retro di un palco, in notti infinite, sul lato oscuro del Greenwich Village. Walk on the wild side è la quinta traccia e primo singolo estratto dall’album Transformer, impreziosito da striature glam, in parte dovute al produttore David Bowie, devoto fan di Reed. Un 45 giri che si diffonde a fine novembre del 1972 nelle radio di New York, per rimbalzare in quelle di tutto il mondo, e non uscirne mai più. Omaggio di Lou Reed ad universo conosciuto a fondo, da testimone e protagonista, nella Factory. Gestita dal demiurgo di Pittsburgh, aveva proposto al pupillo Reed la trasformazione in musical di A Walk on The Wild Side, romanzo del realista americano Nelson Algren. Il progetto naufragò, ma il titolo, a Reed sembrò perfetto, per quella che diventerà la sua prima hit planetaria, dopo lo sfaldarsi dei Velvet Underground. Un brano che trascina dolcemente, nell’abisso che vuole raccontare, come certi long take di Martin Scorsese, suo ricambiato ammiratore. I due, regista e cantautore, si conoscono aduna proiezione per intimi di Raging Bull. Lou Reed rimane impressionato dall’abilità di Scorsese, nel diluire Louis Prima e Pietro Mascagni, per ricreare il convulso mondo sonoro di Jake La Motta. Per il regista del Queens le canzoni di Reed non potevano che nascere da una creatura germogliata a New York. “Le sue parole restituiscono la città senza filtri. La incarnano”. Nella grana della voce di Reed, nelle sue melodie, Scorsese ritrovava la vita pulsante di Manhattan, quello che ha sempre cercato di catturare con il suo cinema, con l’espressività dei suoi personaggi. Nell’“essential New York speech” del cantautore, gli occhi del regista vedono figure marginali colte in flagranza, sorprese a spacciare, imbrogliare, prostituirsi agli angoli delle strade, provarsi a scrollarsi la scimmia dalla schiena, parlottare losche nelle intercapedini dei caseggiati. Assecondare fatalmente la propria deriva.
Uno dei brani preferiti di Scorsese è Street Hassle, storia breve di un amore che esplode, dolce e inatteso, tra una donna bizzarra e il marchettaro che lei ha appena ingaggiato. Ma l’estasi dura poco, la donna muore di overdose, e il ragazzo deve sbarazzarsi del cadavere, per non peggiorare la sua condizione esistenziale. Una scheggia di cinema puro, a detta di Scorsese, ammirato da come Lou Reed sia sempre riuscito a parlare il linguaggio di chi non ha nulla, nemmeno una voce per parlare. Reed ricambia la stima in Doin’the things thet we want to, ode alla brutale sincerità di Marty su New York, alla disperazione suburbana di Travis Bickle e Johnny Boy, così simili ai protagonisti delle sue canzoni.
Reed avrebbe fatti carte false per essere Ponzio Pilato, nella scorsesiana Ultima tentazione di Cristo. Si presentò al provino, ma David Bowie, gemello spirituale e devoto antagonista, gli soffiò la parte.
L’affinità più intima tra Scorsese e Reed va ritrovata nelle pagine di Delmore Schwartz. Scorsese confessò a Reed che uno delle sue ossessioni era trarre un film dal racconto di Schwartz In Dreams Begin Responsabilities. Reed replicò rivelando al regista che lo scrittore era stato il suo mentore, alla Syracuse University. Il primo a indovinare subito un talento puro in quel ragazzo, inquieto almeno quanto lui.
Quando incontra Schwartz, il giovane Reed sta cercando una sua forma, un linguaggio personale. Si specchia, come tutti i suoi coetanei, nei riflessi di celluloide, Marlon Brando e James Dean. Scorrazza in motocicletta per Freeport, in giacca di pelle e occhiali scuri, come The Wild One. Ma la scintilla più violenta è proprio il racconto di Schwartz, destinato a ossessionare anche Scorsese
Nei sogni cominciano le responsabilità racconta di un ragazzo, ipnotizzato dalla visione di uno strano film, incentrato sul primo appuntamento dei suoi genitori. Il ragazzo assiste con orrore a sguardi, sospiri e carezze cariche di desiderio: ne conosce, per esperienza diretta, il mesto finale, un matrimonio disastroso. Prova a soffocare sul nascere la causa di tanto dolore, gridando contro lo schermo, scongiurando i due di non metterlo al mondo. Ma la pellicola continua a scorrere, implacabile come un destino già scritto. Il giovane Lou si rispecchiò nell’allucinazione del ragazzo. Cominciò a scoprire il gusto difficile di turbare il prossimo, senza risparmiare se stesso. Deformando in parte il proprio reale dramma familiare, per alimentare il romanzo gotico di sé. Parla spesso di sua madre ex reginetta di bellezza, e di suo padre austero fiscalista. Della loro reazione sconvolta alle sue esibite ambiguità sessuali, alla sua precoce passione per le sostanze forti. Dei tentativi di recupero della retta via, a colpi di elettroshock. Un alto voltaggio subito davvero, che lascia segni profondi, in una memoria ondivaga, squassata dall’immaginazione.
Lou Reed comincia a intuire che bastano parole semplici e potenti, per creare immagini. Accendere emozioni universali, e farle vibrare su tre accordi. Come in certe schegge di Raymond Chandler, amato padre letterario dei bassifondi americani: Reed cercò di rubarne la capacità di formare, con le parole, immagini fulminee, nella mente di chi ascolta. Si immerge solitario nelle strade di New York, imbottito di sostanze forti, a riempirsi le orecchie di Ornette Coleman ed affini, nei locali jazz underground. Frantuma in mille pezzi ciò che vede e respira in quei margini, per restituirlo in musica, in frammenti coincisi, in versi velocissimi e visuali.
Si sente il Baudelaire di New York, e forse lo sta diventando davvero. A metà degli anni sessanta, sulle orme di Edgar Allan Poe, altro amatissimo spettro, comincia a percepire che il suo ruolo è cantare, e incarnare, la faccia triste dell’America, la metà in ombra del suo trionfalismo. Heroin nasce qui, per entrare, anni dopo, nella colonna sonora di The Doors, diretto da Oliver Stone. Accompagnando il passaggio rapido e poco convinto, di Jim Morrison dal mondo di Warhol. Troppo distante da lui la New York livida, in bianco e nero, contrapposta alla solarità lisergica della West Coast e dei suoi coloratissimi hippies. Los Angeles, il Flower Power, la gioia di vivere, l’amore libero, il sesso vissuto e sbandierato come sinonimo di libertà sono lontanissimi dalla New York decadente, di cui Lou Reed sta per diventare il cantore, insieme ai suoi compagni di strada. Nell’estate del 1965 Lou e il suo gruppo ancora non sanno come chiamarsi, ma animano dal vivo la proiezione di tutta l’avanguardia newyorchese. Sono la colonna sonora immancabile delle opere mute di Jack Smith, Ron Rice, Stan Brakhage e Barbara Rubin. Pionieri di un cinema concettuale, che demolisce le trame, cancellando la consolatoria rappresentazione hollywodiana. Un flusso di fotogrammi lacerati, dettagli, colri acidi, ombre evanescenti viene scosso dalle dissonanze di Reed, e dei suoi complici, appostati dietro il grande schermo della Cinematheque di Jonas Mekas. Tra il grande telo e il pubblico, vengono sospese decine di veli. I corpi dei musicisti, i loro toraci nudi e dipinti, diventano schermi su cui proiettare immagini. Tutto diventa un’allucinazione, sospesa tra nuvole d’incenso, danzatori, cantanti estemporanei, dicitori di poesie. Un Hellzapoppin’in cui Lou Reed e compagni sbozzano un universo sonoro inedito, perturbante. L’autunno del sessantacinque li vede alle prese con un pubblico ormai consolidato, e un nome nuovo di zecca, definitivo: Velvet Underground, rubata al titolo di un’libro inchiesta scritto dal giornalista Michael Leigh, uscito nel 1963, dedicato alla diffusione del sadomasochismo, “corruzione sessuale del nostro tempo”. John Cale, virtuoso della viola e del basso se lo ritrovò tra le mani, prestatogli da un amico, che lo aveva trovato per terra. Quel titolo dal font lezioso sormontava copertina impreziosita da oggetti rituali lucidi e neri: una frusta, uno stivale a punta, una chiave e una mascherina. Lou, Cale e gli altri se lo sentirono subito tatuato addosso. Un’immagine potente, che evocava il cinema underground e si adattava perfettamente alla ritualità feticistica del loro repertorio. A brani comeVenus in Furs, la Venere in pelliccia rubata alle pagine di Leopold Von Sacher-Masoch.
I Velvet Underground finiscono per catturare anche l’occhio lungo di Andy Warhol. Consigliato dai discepoli prediletti, Paul Morrissey e Gerard Malanga, Warhol percepisce subito un’affinità d’intenti con quei ragazzi tetri e talentuosi. Gli piace la loro vocazione a creare nel pubblico un disagio seducente, con tematiche tabù, come le devianze sessuali, l’eroina, la prostituzione. Afferma di non credere più nella pittura, e di essere deciso ad esplorare le possibilità offerte dalla musica, dalle sequenze filmate. ha celebrato la freddezza, l’appeal inorganico e irresistibile delle merci. Ma è attratto morbosamente anche dalla visceralità disperata, che palpita sotto la patina di neon e fòrmica, dell’America del suo tempo.
I Velvet Underground sono l’inaspettato che sta cercando. È attratto da Reed, quell’efebo ricciuto, con l’aria luciferina. Da quelle pupille nere, perforanti, nascoste anche di notte sotto gli occhiali da sole, e dalla sua dolenza ironica, disincantata, che promette di durare per sempre. Resistendo perfino al vampirismo di Drella, come tutti chiamano il sultano della Factory, fondendo Dracula e Cinderella. Warhol fagocita Reed e i suoi in The Exploding Plastic Inevitable “spettacolo magnifico di desideri sensuali, eros e crudeltà. Una manifestazione potente, mistica, che fa pulsare tutto il corpo”.
Un evento multimediale, in largo anticipo sui tempi. Ogni sequenza dell’evento è scandita dalla musica del gruppo, amplificata a volumi sadici, proibitivi. La musica di Lou Reed, del suo gruppo, sembra indissolubile dall’immagine.
Warhol cuce su di loro A Simphony of Sound, prefigurazione del videoclip a venire. Riprende l’esibizione dei Velvet underground alla Factory, in una prova registrata in assenza di pubblico. Piani sequenza smisurati, zoom ossessivi, inquadra anche spazi neutri, senza senso apparente. Sintomo della vana vita, della dissipazione di cui Warhol si circonda e che smania di catturare, da voyeur insaziabile. Ci sono Nico, John Cale, Sterling Morrison al basso e la batterista androgina Maureen Tucker. Il frontman, Lou Reed, occhiali scuri inforcati, mantiene con la sua chitarra una cadenza ripetitiva, psichedelica, apparentemente infinita, come la musica indiana di Ravi Shankar, e del suo sitàr.
Chiusa l’esperienza con i Velvet underground, Lou Reed diventa un’icona individuale, senza mai abbandonare l’underworld suburbano che lo ha formato.
Le metamorfosi si susseguono. Il look viene ripensato in chiave glam, impiastrando la faccia di trucco bianco, e cerchiando gli occhi di nero. Nasce il mito del fantasma del rock, desideroso di portare il suo pubblico in un mondo che gli era precluso. Vuole che gli spettatori non siano più gli stessi, dopo una sua performance.
È amante del travestitismo, della ritualità e molteplicità dei ruoli del sadomosochismo. Il concept album Berlin, del 1973, è pieno di atmosfere brechtiane, un’amore fassbinderiano, più freddo della morte. Lascia il pubblico molto perplesso, al punto da indurlo a proporlo in concerto, per la prima volta, solo nel 2006, al St. Ann’s Warehouse di Brooklyn. Per l’occasione, verrà inquadrato dalla cinepresa di un suo devoto, il regista Julian Schnabel, commosso dalla capacità di Reed di “impersonificare come pochissimi artisti gelosia, rabbia e perdita”. Il suo film sottrae all’oblio un album incompreso, restituendolo alla dimensione visuale che aveva già in sé. Con il Muro di Berlino che incombe sullo sfondo, ed Emmanuelle Seigner a incarnare la Caroline cantata da Reed, e la sua storia di gelosia e autodistruzione. All’inizio degli anni settanta, gli eccessi quotidiani di speed stravlgono il corpo performante di Reed, più di qualsiasi travestimento. Scheletrico, nervi tirati, T Shirt e jeans neri, gli occhioni sempre più basedowiani che sporgono dalla testa rasata. Squassato da collera, e artificiali eccessi libidici, come un Jerry Lewis anfetaminico. Lo speed gli tira anche i muscoli del viso: quando tenta di sorridere, sembra un Frankenstein disperato. È come se si stesse meritando, sul campo, come un martire, il modo sempre più livido che canta, e incarna.
Vuole autocestinarsi, come un dadaista. Continuare a cambiare, per non adagiarsi mai sulla maniera di se stesso. Sputa sul clichè della rock star, autodefinendosi uomo comune, average guy, per spiazzare ancora i passionisti del suo culto. In pieni anni ottanta, forse contagiato dall’edonismo reaganiano o dal vitale desiderio di scendere dal piedistallo del suo mito, si presta come testimonial di una nota marca di scooter. In una Manahattan post warholiana, degradata a spot patinato, tra sassofonisti coloured e finte superstar di strada, Lou si sfila gli occhiali scuri e invita a preferire la comodità delle due ruote, rispetto alle fatiche del camminare, sul lato selvaggio della vita. Anni dopo parodierà anche il suo ruolo di testimonial, pubblicizzando le vedute di Lou i suoi occhiali con lenti sollevabili, quasi un’invenzione petroliniana, in Blue in the face, film del 1995 diretto da Paul Auster e Wayne Wang.
Il cinema lo ha usato spesso in forma di cameo, relegandolo all’epifania un po’ meccanica del proprio mito, persino da Wim Wenders, in Così lontano, così vicino, e in Palermo shooting.
Il frammento di cinema più marcante legato a Lou Reed, rimane forse l’overdose di Ewan Mc Gregor in Trainspotting, sulle note di A perfect day. Una soggettiva tragicomica, sprofondata nel proprio sarcofago, come il vampiro di Dreyer resuscitato dall’eroina. Racchiude tutto il lirismo da superstite di Lou Reed, l’elogio sincero, consapevole dell’estasi artificiale. Dispensatrice di un piacere pari solo al senso di compiutezza, regalato dal liberarsi dalle proprie dipendenze. Sopravvivendo, ancora per un po’, alla propria guerra interiore.
fonte: www.linus.net – febbraio 2021