CREATIVO ED ETICO

di:
Barbara Martusciello

Il 1972 a New York segna un punto fondamentale per l’Italia e la sua produzione creativa e industriale tutta, non solo per la cultura del Progetto; fu infatti allora, precisamente al MoMA, con la grandiosa mostra Italy: The New Domestic Landscape (a cura di Emilio Ambasz e con un catalogo stratosferico, con tanti contributi critici), che fu ufficializzata a livello internazionale l’investitura del cosiddetto MADE IN ITALY, inteso non solo e non tanto come un’indicazione di provenienza e certificazione del prodotto,  ma come marchio di (buona) reputazione, brand dell’eccellenza italiana nella produzione creativa, artigianale e industriale. Tra i tanti settori di questa realtà d’eccellenza, quello del Design vede tra i grandi  protagonisti, tra gli altri, Vico Magistretti, Ettore Sottsass, Mario Bellini, Joe Colombo, Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Alberto Rosselli, Marco Zanuso, Archizoom, Superstudio, Ugo La Pietra, Gruppo Strum, 9999; e Enzo Mari. Lui, il grande maestro del Design italiano e mondiale, divulgatore finissimo, accademico, artista, grafico, attivista politico, il progettista che firmò oltre 1500 opere di design, nato a Cerano (Novara) il 31 dicembre 1932, se ne è andato all’età di 88 anni all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato.

Suoi il vassoio Putrella e Delfina (Rexite), il cestino gettacarte In attesa, il calendario perpetuo Timor (tutto Danese), il portaombrelli Eretteo e l’appendiabiti Togo (Magis), le sedie Soft Soft (Driade) Tonietta (Zanotta); le pentole Copernico e le posate Piuma (Zani&Zani), lo spremilimoni Squeezer Titanic (Alessi), che fanno parte di importanti collezioni in musei internazionali. Suoi i giochi per bambini quali Il posto dei giochi di Enzo Mari (Danese) del 1967,  “primo luogo di gioco per bambini al coperto e portatile conosciuto, più uno spazio che un oggetto e progettato per favorire lo sviluppo dei loro processi di identificazione” (come scrisse Tommasio Trini su “Domus” l’anno dopo). Sua una vastissima produzione che la Triennale di Milano sta onorando con una grande antologica (a cura di Hans Ulrich Obrist, con Francesca Giacomelli e l’amorevole, competente supporto del Presidente della Triennale, l’Arch. Stefano Boeri).

Sua la vis radicale, critica e politica, si espresse, tra l’altro, nella mostra, alla Galleria Milano, nel 1973, Falce e martello. Tre modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe (ora riproposta fino al 16 gennaio nella stessa galleria milanese, via Manin 13 e via Turati 14) nel cui contesto scaturì un acceso dibattito e la proiezione di Comitati politici. Testimonianze sulle lotte operaie in Italia nella primavera del ‘71 dello stesso Mari con il Gruppo di Lavoro e degli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (pellicola di cui si persero le tracce e che è stata cercata a lungo, ritrovata e digitalizzata dall’Archivio Home Movies di Bologna). Con questa inclinazione alla presa di responsabilità in prima persona partecipò all’arte e al dibattito dei vivaci anni Sessanta e Settanta lo videro compagno di viaggio di amici quali Gillo Dorfles, Arturo Schwarz e dell’amata Lea Vergine, sodale di vita e critica d’arte, anch’essa pioniera nella professionalità e pasionaria nelle scelte (mentre si stava pubblicando questo articolo, purtroppo abbiamo appreso della sua scomparsa, ad appena un giorno di distanza di Mari) in anni di agitazioni politiche e contestazioniMari fu attivamente e ardentemente impegnato nell’Arte Programmata e Cinetica, nelle ricerche sulla percezione visiva – nel 1960 Mari espone al Kunstgewerbemuseum di Zurigo nella pionieristica mostra collettiva Kinetische Kunst, nel 1963 coordina il gruppo italiano Nuove tendenze e nel 1965 ne cura la mostra di arte optical, cinetica e programmata alla Biennale di Zagabria –, sulle possibilità di un’arte condivisa e dell’opera “aperta” teorizzata da Umberto Eco; vicino, quindi, a Bruno Munari, Adriano Olivetti (stimatissimo, considerato l’unico esempio di rapporto virtuoso tra Industria e Design) e poi rivolto a una nuova astrazione fatta di scomposizione geometrica e responsabilità etica – in questo abbracciando alcune istanze delle Avanguardie Russe –, oltre che a un impegno per rivendicare un ruolo sociale e politico del Design.

Disse di non conoscere nessuna opera di grandi maestri “che non fosse basata totalmente su valori etici”. Continuando: “Per me progetto vuol dire cambiare il mondo. Il progetto è una negazione e questo me lo rafforza tutta la cultura: da quella letteraria a quella scientifica. Tutta la cultura è negazione. E solo una società degli imbecilli, di zombi, di nati morti, può pensare che il soggetto sia affermazione… Lo so, sollevo problemi che sembrano difficili. (…)” [1]

Critico della cultura del progetto, che vedeva oggi degradata a causa di un mercato sempre più becero, di una prassi del consumo usa-e-getta e della smania del successo da parte di troppi colleghi, spesso emergenti, disimpegnati sociopoliticamente e poco consapevoli, era però amante delle più giovani generazioni di cui era un mentore, “ha saputo rileggere la materia in termini non solo funzionali, ma anche estetici e politici, indagando le infinite possibilità costruttive attraverso la grande lente della sperimentazione e della tecnica.” (“Elledecor”, 19, 10, 2020), inventando “sia i dispositivi che le loro regole” e poi bloccando “questi dispositivi in ​​un certo tipo di comportamento piuttosto che in un certo tipo di consumo” (“Domus”, 1968); ovviamente, con una grande attenzione alla qualità della forma; disse, a tal proposito: “Io so cos’è la qualità della forma. Conosco per esempio qual è la qualità della forma musicale anche se non so leggere il pentagramma o suonare uno strumento…”. Sapere di non sapere, eppure capire e applicare quella conoscenza, quel meccanismo linguistico ad ogni cosa osservata, indagata. Ecco come ragionava e procedeva  Enzo Mari, sempre nel segno di una civilissima, coraggiosa, indomita passione per il suo lavoro, per il settore (da lui visto e stigmatizzato nelle sue incoerenze e criticità) e per la collettività che sperava di potere aiutare in qualche modo a prendere coscienza (morale, non moralistica) di sè: con il Design, sì. anche con il Design come utopia democratica.

Note. 1.  tratto dalla presentazione di Enzo Mari a Firenze il 7 aprile 2001 durante l’incontro presso l’Aula Magna di Palazzo Vegni in occasione della presentazione del volume Progetto e passione, edito da Bollati Boringhieri, organizzata dal Centro Studi Giovanni Klaus Koenig in collaborazione con il Dipartimento di Tecnologie dell’Architettura e Design – Facoltà di Architettura. Nella medesima serata sono intervenuti: Lara-Vinca Masini, Giuseppe Furlanis, Vincenzo Legnante, Lino Centi e Roberto Segoni.

Fonte: artapartofculture.net