I puntini femministi di Yayoi Kusama. Novant’anni da artista star, in un doc
di:GHISI GRÜTTER
Di Ghisi Grütter · 3 Marzo 2019
In sala dal 4 marzo (per Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema), “Kusama – Infinity”, coinvolgente documentario di Heather Lenz sulla celebre artista-star giapponese arrivata al traguardo dei 90 anni. La sua vita, i suoi anni americani, la sua arte che l’ha portata a lottare contro il sessismo, l’esclusione, i pregiudizi, e perfino la malattia mentale. Oggi una delle artiste più influenti della storia dell’arte contemporanea, colei che ha fatto delle sue allucinazioni un’arte diventando l’artista donna più venduta al mondo…
Arriva in sala il 4 marzo il coinvolgente documentario Kusama – Infinity, scritto e diretto da Heather Lenz e prodotto da Magnolia. La sua uscita in questi giorni ha una doppia valenza: quella di celebrare il novantesimo compleanno di Yayoi Kusama, la coraggiosa artista giapponese che ha lottato con forza straordinaria contro il sessismo, l’esclusione, i pregiudizi, e perfino la malattia mentale, e quello di mettere in risalto, in questi giorni dedicati alle donne, la vita di una donna straordinaria che settant’anni fa, non ancora ventenne approdò da sola a New York (fuggendo dal Giappone nel ’58), giovane e senza soldi, munita solo della sua grande passione per la pittura. Il suo motto era: «Per chi crea, tutto è una scommessa, un salto nell’ignoto».
La regista americana Heather Lenz studiando Storia dell’arte agli inizi degli anni ’90, reperì con difficoltà immagini dei suoi lavori e così afferma in un’intervista: «Quando ho visto per la prima volta i lavori di Kusama, ho immediatamente percepito un legame istantaneo con la sua arte. Mentre imparavo di più sulla vastità dei lavori che ha creato durante la sua vita, in particolare a New York tra il ’58 e il ’73, ho compreso che i suoi contributi al mondo dell’arte non erano stati adeguatamente riconosciuti».
Il documentario narra, in modo dettagliato, la sua vita fin dalla nascita nel ’29 a Matsumoto, Prefettura di Nagano, a 200 km da Tokio, e descrive la sua infanzia presentandoci un quadro familiare non dei più sereni. Quarta figlia di una famiglia di benestanti che commerciavano in agricoltura – avevano una grande impresa di vendita di semi all’ingrosso – Yayoi dipinge fin da piccola a dieci anni, da sempre attratta dai puntini.
La madre non vuole e cerca di impedirglielo, strappandole perfino i fogli dalle mani. Era una donna infelice perché il marito le era infedele e la sua frustrazione la scaricava sui figli. Sembra che sua madre la obbligasse a spiare suo padre, esperienza traumatica che provocherà in Yayoi una sorta di ossessione nei confronti del sesso, che sarà chiaramente poi percepibile più nella sua produzione artistica.
Un giorno Yayoi scopre un quadro di Georgia O’Keeffee, l’ Iris nero, ne rimane affascinata e trova il coraggio di scriverle. Le opere della O’Keeffee sono caratterizzate da forme organiche, fiori, ossa, montagne teschi di animali e Yayoi troverà molte affinità con i suoi soggetti ingranditi e dipinti con cura minuziosa.
Nascerà un rapporto epistolare a distanza, la pittrice americana, ormai non più giovane, anche se si era ritirata in campagna dopo la morte del marito il fotografo Stieglitz, ha cercato comunque di fornirle occasioni di mostre.
Come spiega Heather Lenz, all’epoca non c’erano donne che tenevano mostre personali, neanche a Manhattan, e il suo lavoro non era quindi preso troppo sul serio: oltre a essere una donna era anche giapponese!!
Poi nel ’61 fu inserita in una mostra di sei artisti giapponesi, che però fu motivo di vivaci proteste perché lo spazio a lei dedicato fu molto sacrificato. Di seguito ebbe luogo una sua personale alla Stephen Radich Gallery di New York dove fu notata da Frank Stella che apprezzò il suo lavoro e comprò perfino un suo quadro pagandolo a rate.
Punti e reti, corpo della donna e il colore rosso, avevano qualcosa di magico. Man mano le suggestioni del “luogo”, i colori dei taxi newyorchesi e l’asfalto, le suggerirono l’uso del giallo e del nero dei suoi quadri. Le dimensioni dei “quadri a rete” cominciarono ad aumentare fino a raggiungere i dieci metri, così che da un supporto bidimensionale si passava a un vero e proprio universo.
La reiterazione ossessiva che stava sviluppando e il senso di persecuzione delle reti che la circondavano e le toglievano il respiro, la spinsero a intraprendere una psicoanalisi. Le fu diagnosticata una nevrosi ossessivo-compulsiva che aveva come matrice la paura sessuale. Infatti, nella sua abitazione, abbandonata la bidimensionalità dei pois, tutto era diventato un insieme di protuberanze, escrescenze a forma di fallo.
Contemporaneamente Kusama entra – anche se un po’ dalla porta di servizio – a far parte del gotha della Pop art: nel ’63 alla “Green Gallery” di Richard Bellamy il suo “divano con protuberanze” (oggi al MOMA di New York) fu esposto assieme a opere di James Rosenquist, Andy Warhol e alle sculture in cartapesta di Claes Oldenburg. E forse fu proprio il successo di Oldenburg che iniziò a deprimerla profondamente.
Nel dicembre dello stesso anno, presso la “Gertrude Stein Gallery”, Yayoi Kusama presentò la sua prima installazione che fu altamente innovativa: la One thousand Boats Show, una semplice barca a remi ricoperta completamente dalle sue protuberanze imbottite. Ne scattò varie foto con cui ricoprì le mura della galleria posizionando la sua barca al centro. Di questa idea rimase colpito anche Andy Warhol che le copiò l’idea coprendo le sue pareti con le foto di una mucca. Questo fece scattare in Kusama la profonda paranoia che gli altri si potessero impossessare delle sue idee, quindi si chiuse ermeticamente dentro casa costruendo anche lei sculture, senza ottenere però lo stesso successo degli artisti statunitensi e maschi.
Nel ’66 Richard Castellane organizzò nella propria galleria la mostra di Kusama “The Peep Show”, dove bisognava infilare la testa in una stanza ottagonale coperta di specchi e tante luci al soffitto, come per rompere i confini dello spazio. In tal modo Kusama trovò una connessione con i principi dell’arte europea rinascimentale, avendo a che fare con la prospettiva e con l’infinito.
Nell’ottobre del ’66 Lucas Samaras, un importante personaggio nella scena degli artisti radicali, espose alla prestigiosa “Pace Gallery”, una stanza coperta da specchi, simile alle ultime opere di Kusama, recependone il senso di rottura spaziale, di ricerca di limite e di confini. Questo fatto la depresse ancora di più, che finì per tentare il suicidio buttandosi dalla finestra dove, fortunatamente cadde su una bicicletta. L’incertezza dell’ignoto e la paura le impedirono di farla finita, ma credo che il suo amore per la creazione fosse più forte del desiderio di distruzione.
La regista racconta che nella seconda metà di quegli anni Kusama espose molto in Europa, e una volta finì per intrufolarsi, non invitata, alla Biennale di Venezia del ’66. Lì presentò il Narcissus Garden, 1500 sfere di specchi ubicate di fronte al Padiglione Italia che si mise a vendere chiamandole “sfere del narcisismo”: un’idea estremamente innovativa per spezzare l’aura d’intoccabilità dell’arte. Kusama aveva così incamerato anche i concetti di pubblicità e di comunicazione. Naturalmente le impedirono la vendita e le chiesero di andarsene, a quel punto lei si tolse il kimono e restò in calzamaglia rossa a danzare tra le sue sfere.
Tornata a New York fu autrice di un happening con tre donne nude nel giardino del MOMA poi espulse dalle guardie museali. I corpi nudi diventarono quindi la base delle sue pitture e delle sue performances. Instancabile battagliera, organizzò un matrimonio gay, iniziando a frequentare quegli ambienti e lottando per il loro riconoscimento. La sua sete di sperimentazione la portò a realizzare anche il film Self Obliteration, dove nuda e a cavallo, si coperse di tanti punti bianchi fino a far sparire le sue fattezze, annullandosi nell’universo.
Ma quelli erano anche gli anni del Vietnam, i giovani tornavano dall’esperienza della guerra o feriti o spesso tossicomani. L’artista organizzò allora una serie di performances di corpi nudi a chiedere simbolicamente “perché dobbiamo mandare questi bei corpi in guerra?” . La sua presa di posizione nasceva anche dai ricordi della Seconda Guerra mondiale, con i giovani studenti giapponesi arruolati come soldati, mentre le ragazze lavoravano nelle fabbriche militari. Lei stessa giovanissima era stata costretta a lavorare per costruire paracaduti. Una volta manifestando nuda per Manhattan fu arrestata. La notizia e le foto fecero il giro del mondo e proprio in Giappone, specialmente nella sua città, le critiche delle sue imprese diventarono feroci e così violente che cancellarono il suo nome dagli annali degli studenti.
Dopo la rielezione di Nixon del ’72 e la svolta del paese verso una deriva sempre più conservatrice, la vita degli artisti avanguardisti divenne difficile, specialmente per lei che era considerata comunque un’outsider. Le sue crescenti posizioni radicali le avevano fatto perdere quella considerazione che aveva ottenuto nella decade precedente.
Decise pertanto di tornare in Giappone nel ’73. Ma a Tokio dovette ricominciare da capo, era una signora di mezza età che faceva cose strane, nessuno la conosceva né riconosceva. All’epoca c’era un forte gap culturale tra il Giappone e gli Stati Uniti e a Kusama sembrava di essere tornata indietro di cento anni. L’ambiente artistico le era ostile e fu un momento di grande sofferenza per lei fino a smettere di dipingere e a tentare il suicidio per una seconda volta. Entrò quindi volontariamente in un ospedale psichiatrico dove si praticava art therapy e qui iniziò a utilizzare la tecnica del collage. Ritornò in qualche modo sui soggetti della sua giovinezza: fiori, insetti, natura, rappresentati nei loro cicli di vita.
Era un’artista incompresa in Giappone e dimenticata a New York, dove nessuna galleria aveva più esposto le sue opere negli ultimi 20 anni. Solo nel corso degli ’80 riuscì a esporre alla Fuji TV Gallery, dove Alexandra Munroe e altri, decisero di organizzare una retrospettiva a New York al Center of International Contemporary Arts nell’ 89 partendo dagli acquerelli degli anni ‘50.
Risalendo la china della notorietà, fu perfino invitata a partecipare alla Biennale di Venezia del ’93, con grosse difficoltà vivendo ormai nell’ospedale psichiatrico Seiwa dal ’77. Infatti arrivò a Venezia accompagnata da uno psichiatra. Dall’intrufolarsi clandestinamente a essere la rappresentante del Giappone ne aveva fatta di strada! A congratularsi con lei c’era anche Yoko Ono, un’altra artista giapponese con vita travagliata e mai apprezzata fino in fondo.
Infine nel ’98 Lynn Zelevandksy organizzò un’altra sua retrospettiva a Los Angeles al County Museum of Art, “Love Forever, Yayoi Kusama 1958-1968”. Finalmente dopo aver lottato incessantemente l’hanno cominciata a conoscere e apprezzare dappertutto: hanno seguito mostre al Centro Pompidou di Parigi, al Whitney Museum di New York, alla Tate Gallery di Londra, in tutti i luoghi deputati, sogno e mito di ogni artista. Perfino nella sua città natale, dove era stata sempre ostacolata e respinta, è stato costruito il Matsumoto City Museum of Art.
Oggi a novant’anni Kusama continua a dipingere in maniera ossessiva, senza aver preparato alcun bozzetto, enormi tele lunghe una decina di metri, e che lei finisce in tre giorni. C’è molto spazio per la sua fantasia, i colori si arricchiscono, le dimensioni delle sue famose zucche gialle e nere crescono.
A mio avviso, la prima parte del film è assolutamente fantastica e coinvolgente. L’accurata ricostruzione dell’ambiente dove l’artista è nata e cresciuta è arricchita da prezioso materiale di repertorio. Così mi ha notevolmente affascinato l’impatto con New York, affrontato con coraggio e determinazione di emergere. Kusama è una donna che lotta doppiamente contro l’ingiustizia della discriminazione, sa di valere e vuole essere riconosciuta come tale.
Heather Lenz ha rappresentato con ricchezza di immagini, i roaring sixties, l’ambiente dei galleristi newyorchesi, degli art-dealer, dei collezionisti d’arte. Attraverso varie interviste, compresa quella alla stessa Kusama, sono narrate, oltre alle mostre, le invidie e le gelosie tra gli artisti, il tutto inserito comunque in anni di grandi fermenti culturali, quando a New York risplendeva il massimo della cultura occidentale.
Meno convincente, invece, mi sembrata la parte del documentario sul ritorno in Giappone, dove lei sembra essere totalmente isolata e chiusa nelle sue allucinazioni, mentre invece si sta imponendo nel mondo. Nonostante la regista abbia sposato un giapponese da cui si è fatta coadiuvare, mi pare meno indagato il rapporto tra l’arte di Kusama e il suo contesto.
Dalla metà degli anni ’80 in poi Tokio è diventata una sorta di mecca culturale. Fanno scuola in tutto il mondo l’architettura della trasparenza e gli involucri parlanti di Toyo Ito, Arata Isozaki e Kenzo Kuma, tanto per citare i tre architetti più noti. La Ginza diventa il luogo del commercio per antonomasia, dove tutti i brand più famosi al mondo si fanno costruire lì il proprio flaghshipstore. Perfini i couturier più richiesti vengono ormai dal Giappone: Yoshi Yamamoto, Issey Miyake, Moyuro, ricercano e sperimentano nuovi tessuti tecnologici.
Mi chiedo, quindi, come sia possibile che una donna così recettiva come è stata Kusama, che in passato aveva inserito elementi e suggestioni spronata dalla sua esperienza statunitense, sembri diventata, nella seconda fase della vita, impermeabile agli stimoli esterni. Malattia? Introspezione? Legame con la tradizione antica giapponese? Sarebbe forse stato interessante focalizzare questo elemento per capire meglio la sua attuale poetica figurativa.
Buon compleanno Yayoi!
Ghisi Grütter
Architetto e Professore Associato di “Disegno”, fa parte del Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre. Autrice di numerosi libri e saggi, tiene la rubrica “Disegno e immagine” nella rivista on line “Ticonzero” e scrive nella sezione micro-critiche di “DeA Donne e Altri”.
Tratto da: bookciakmagazine