Lo spettatore
di:Luigi Ciorciolini
Seconda carta nautica: si fa presto a dire pubblico, vorrei vedere te a fare lo spettatore
“Sono una donna povera e anziana,
che nulla sa; né a leggere ho imparato.
Vedo al convento, ove sono parrocchiana,
arpe e liuti in Cielo pitturati,
e un inferno ove bollono i dannati:
paura l’un mi fa, l’altro delizia”.
Queste sono le parole che il poeta François Villon, presumibilmente intorno al 1450, fa pronunciare alla propria madre mentre si reca alla messa. L’anziana donna, probabilmente digiuna e sicuramente analfabeta, entrando in chiesa sa cosa l’aspetta: tutte le pareti interne dell’edificio sono affrescate creando così il supporto in termini di immagini alle prediche che si succederanno nel corso dell’anno.
L’ edificio sacro è in effetti un poderoso sistema comunicazionale dove al potere evocativo dei cicli di affreschi si aggiunge la sapiente voce fuori campo del predicatore, la musica del coro e, infine, l’odore dell’incenso. Ora si sa che l’incenso non è proprio buono buono,, ma a digiuno da tempo come gran parte di quei parrocchiani e dandoci dentro come se non ci fosse un domani, anche quello alla fine fa. Tutti i sensi dei fedeli sono in questo modo sollecitati al fine di creare un ambiente altro e fare del rito un momento unificante. Tutti i fedeli devono essere coinvolti siano essi uomini o donne, anziani o giovani, analfabeti o in grado di leggere.
Così, come nel caso della cappella nel Camposanto di Pisa, può succedere che i personaggi ritratti sulle pareti portino cartigli scritti in volgare e in latino destinati a fedeli divisi in fasce culturali diverse. Gli affreschi come detto erano parte di un progetto in cui immagine e voce dovevano interagire secondo un ciclo annuale, predeterminato, di prediche.
Questo per quanto riguarda i comunicatori, e il pubblico? La mamma di Villon partecipa al rito con altre centinaia di correligionari e per tutta la durata della funzione la donna opera quella sospensione dell’incredulità che unisce gli spettatori di tutti gli spettacoli di ogni tempo e che la fa partecipare insieme alla comunità dei fedeli ad una esperienza che è insieme reale e simbolica. G. Bateson ci ricorda che così facendo noi adottiamo una cornice mentale comune a tutti gli altri spettatori e che questo atteggiamento lo assumiamo ogni volta che partecipiamo a momenti di vita collettivi siano riti religiosi, riti laici, momenti di gioco o sport. La cornice mentale è determinata da quell’insieme di regole e norme dette e non dette, scritte e non scritte, messe insieme nei primi diciotto anni della nostra vita, che ci rende accettabili frasi come: “Per una volta cerca di essere spontaneo” o “Dimentica quello che ti ho detto”. È ancora la cornice mentale che ci dice che quando ci rechiamo in un museo come il Louvre o i Musei Vaticani, e quindi ci troviamo al cospetto dell’arte, sappiamo come comportarci. Le regole non scritte da nessuna parte ma conosciute da tutti ci dicono di non correre, di non parlare ad alta voce, di non giocare a pallone e di avere una postura dignitosa tipo non mettersi le dita nel naso e, principalmente, di non cercare di pulirsele su di un quadro. Va bene, questo lo sappiamo tutti e, visto appunto che parliamo di cornici mentali, possiamo darlo per scontato. Quello che vale la pena di riprendere è il fatto che una chiesa dove si celebra una funzione (rito religioso),
uno stadio di tennis dove tra sofferenza e giubilo si segue la finale del trofeo di Wimbledon (rito laico), una visita guidata al Prado, ci introduce, da soli e in gruppo, in un luogo altro dove in una cornice temporale altra assistiamo a qualcosa che ci coinvolge come la vita normale non ci coinvolge.
Come si capisce stiamo lasciando l’area disegnata da Huizinga, Caillois, Goffman e in fondo anche la Heller della “Teoria dei sentimenti” che resta una mappa esemplare per comprendere come l’essere umano possa superare la realtà quotidiana per proiettarsi nel “gioco”. In questo percorso iconautico ci inoltreremo invece in un territorio nuovo legato alle nuove tecnologie della visione per esplorare quello che nasce dal rapporto tra immagini (vere o di sintesi) e immaginario. Cercheremo di capire cosa succede quando le immagini esteriori incontrano, circondandole, le immagini interiori profonde tenendo evidentemente conto della declinazione storica di questo rapporto. Questo nuovo curioso spazio-tempo che da adesso chiameremo realtà ‘immersiva’ non può esistere come tale, il suo circuito completo non può realizzarsi se non nell’individualità dello spettatore.
Essa rientra negli infiniti “atti performativi” o sistemi di comunicazione polisensoriale (sinestetica) che però presuppongono uno spettatore per compiersi in maniera esaustiva: “Anche la ricerca neuropsicologica conferma che l’informazione è creata dall’osservatore, non è data, perché comprendere è concepire, non recuperare in memoria e cercare corrispondenze. Non c’è un’informazione in generale ma un attore che ricerca, interpreta e usa degli indizi, delle tracce, per sviluppare attraverso di essi la propria conoscenza dell’ambiente e la propria azione in esso” (Giuseppe Mantovani, Comunicazione e identità, Il Mulino, Bologna, 1995) e ancora “…gli esseri umani organizzano i loro progetti e attribuiscono significato agli oggetti partendo dalle premesse dell’ordine culturale esistente. In questo senso si può dire che la cultura si riproduce storicamente nell’azione. Un evento è l’attuazione particolare, unica, di un fenomeno generale, è la realizzazione contingente del modello culturale” (M. Sahlins, Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud, Einaudi, Torino, 1986). Lo spettatore della realtà immersiva dunque ha le stesse competenze dello spettatore di teatro, cinema e televisione ma, potendo muoversi a piacimento e dosando a piacere il rapporto spazio-tempo, ha alcune competenze in più che cercheremo di esaminare nel dettaglio. Queste note parleranno quindi sia dello “spettatore” della R.I. sia di come questa sia venuta declinandosi nei secoli in base alle tecnologie offerte dalle singole epoche e in base alle possibilità culturali che permeavano il pensiero. Credo che sia fondamentale questa analisi comparata, per arrivare a determinare le invarianti che sottendono la storia per meglio comprendere il funzionamento del circuito tra Soggetto e R.I.
La mente umana ha un atteggiamento fondante nella sua relazione col mondo che è stato descritto per la prima volta, e poi codificato, da Aristotele nella sua Poetica. Da allora gli strumenti di analisi si sono indubbiamente raffinati per quanto riguarda il testo scritto ma, è opinione di chi scrive, nessuno ha spostato in avanti nulla di quanto descritto da Aristotele. Nella parte della Poetica dedicata alla Tragedia, Aristotele ci dà una descrizione dei gusti espressi dagli spettatori della sua epoca: allo spettatore greco piaceva che in scena si parlasse di matricidio, infanticidio, incesto, cannibalismo, sacrifici umani, suicidio, e, naturalmente, omicidio e tradimento. Questo pubblico arriva persino a stabilire una sorta di graduatoria nel gradimento di queste sanguinose storie. Insomma possiamo dire che il pubblico ha sempre amato le storie in cui si parla di tabù in senso freudiano? E, visto che ci siamo, possiamo affermare che sia il pubblico dell’età periclea che quello di “Porta a Porta” o “Chi l’ha visto” ama quei tabù che i sedicenti e autonominatosi custodi della cultura alta esorcizzano chiamandoli oggi trash o pulp o pop? Importante è l’effetto che queste storie hanno sul pubblico: si instaura un processo psicologico nello spettatore che, attraverso questi noir, viene condotto a uno stato di purificazione, la catarsi, che rimuove le ombre dell’angoscia e illumina la coscienza di una luce nuova e pura. Ma il brano, brevissimo, in cui viene esposta la teoria, è di difficile traduzione e controverse sono le svariate interpretazioni. Goethe non era un grecista ma aveva praticato il teatro e il suo pubblico. Egli intuisce infatti che il processo catartico deve aver luogo fisicamente sulla scena e non nella psiche degli spettatori che sono appunto, e le parole non sono mai neutre, spettatori. La catarsi va mostrata e non provata, o meglio: il fatto di provarla soggettivamente è solo conseguenza del fatto che essa sia stata mostrata chiaramente. Splendida intuizione al cui sostegno porterò soltanto le più recenti scoperte sul riflesso che sui nostri sentimenti hanno i neuroni-specchio e la forma-struttura in tre atti che in tutto il mondo, da sempre, si dà al dramma.
Lo spettatore ideale dunque, quello che sospende volontariamente la sua incredulità per ascoltarci come ci dice Coleridge, non è quello dei quadri di Friedrich, contemplatore solitario in godimento estatico della Natura, e non è neanche quello di Baudelaire che alla Natura sostituisce la città.
E’ quello che va oltre l’analisi di Benjamin: questo nuovo pubblico è portatore di un’estetica che rinvia alle emozioni condivise e ai sentimenti vissuti in comune (M. Maffesoli; La contemplazione del mondo, Costa & Nolan, 1996; La contemplation du monde, Éditions Grasset & Fasquelle, 1993). In questa condizione noi spettatori ci riallacciamo ad una più antica tradizione, come spettatori dinanzi al canto del mito perché come gli antichi sappiamo che solo ciò che fu, dà affidamento di ripetersi ancora. Come bambini che chiedono sempre la stessa favola noi vediamo svolgersi davanti ai nostri occhi l’eterna lotta tra il bene il male e non importa se il protagonista si chiami Frodo Baggins, James Bond o Harry Potter. Sarà sempre la stessa storia con il Male perverso e sfregiato, con i doni magici e con l’eroe disposto a sacrificarsi per la collettività. Ma andiamo oltre: quando siamo di fronte ad un mitologema ci aspettiamo che qualcosa avvenga e questo vuol dire che la rappresentazione o l’immagine prima mentale, fantastica, può praticamente essere sentita come fattore causale, operante e decisivo, a condizione che sia drammaticamente rivissuta e ripetuta, cioè, appunto, presente; vuol dire che le immagini, come le idee (tema: vid-) platoniche, sono alle origini della realtà, come lo sono della conoscenza (Eidénai = aver veduto, sapere). Mentre dentro di noi convive, forse nel lobo sinistro, nel settore di cultura a cui apparteniamo, la certezza che la causa si scopre soprattutto attraverso un processo razionale, un ragionamento, non a caso la causa viene chiamata ragione. Nel nostro lobo destro il fattore causale può essere ravvisato nella rappresentazione quando questa abbia una forte connotazione emozionale e significativa, come quella appunto espressa nel mitologema.
Una logica che va oltre il semplice nesso di causa ed effetto, dove si conosce la cosa e il valore emozionale della cosa. Un pubblico quindi che ha ben cosciente il valore del tempo che si dà nella sua immediatezza e che, ad alcune condizioni date, è disposto a scambiarlo con un biglietto. Il nostro spettatore vuole passare da un’estetica della rappresentazione a un’estetica della percezione e le tecnologie di ogni epoca hanno offerto quanto a disposizione per arrivare a questo. Questa epoca si distingue dalle altre solo perché offre la possibilità di generare immagini con un algoritmo e asservirle nella loro gestione con uno o più computer. Il nostro fruitore cinestesico di ogni epoca esperisce fino in fondo il senso di realtà che si fonda su dati sensoriali, cioè se questo senso si fonda su di una sinestesia (Vezio Ruggeri, L’esperienza estetica, Armando, Roma 1997).
Sia la percezione che l’immaginazione del nostro spettatore cinestesico hanno in comune la rappresentazione che può essere auto evocata nell’immaginazione o stimolata dall’esterno nel caso della percezione. Un luogo come Disneyland funziona sia che il fruitore sappia tutto su Alice o Peter Pan, sia che non ne sappia nulla. Analizzeremo meglio tutto ciò nei casi specifici di Disneyland e del Camposanto di Pisa, per ora resti di quanto andiamo dicendo, che l’immaginazione dello spettatore è parte fondamentale del circuito comunicativo. Noi sappiamo, al contrario del nostro spettatore, che lo spazio, e di conseguenza la sua percezione e raffigurazione, hanno un forte connotato storico. Come rilevato in maniera insuperabile da Panofsky (E. Panofsky, La prospettiva come spazio simbolico,1927, trad. ita. 1971, Feltrinelli, Milano) l’uomo occidentale ha sperimentato uno spazio classico, uno spazio bizantino, uno romanico, gotico, rinascimentale, impressionista, cubista…Oggi possiamo affermare che viviamo lo spazio disneyano o quello di Las Vegas. In questa percezione sinestetica dello spazio, fatta dal corpo come unità di sensi e mente, il sistema nervoso centrale rende simultanei eventi che si presentano come sequenziali e in successione: lo spazio è un modo di essere del tempo e come tale non ha una vera e propria forma ma contiene infinite possibili forme. (V. Ruggeri, cfr).
Ne deriva che proprio nella capacità di organizzare temporalmente gli eventi stimolo che determina lo spazio, e in questo lavoro una funzione fondamentale la svolge la memoria, insieme a breve e a lunga durata. Pensiamo (memoria breve) a quando attraversiamo una strada trafficata e giriamo più volte la testa per guardare e valutare le nostre possibilità di sopravvivenza. E’ la memoria breve che ci dice che quella vettura che per alcuni istanti non ho guardato si è mossa verso di me e che è proprio la stessa macchina; è la memoria lunga, sedimento della mia esperienza, che mi dice la sua velocità approssimativa e di conseguenza le probabilità di cavarmela nell’attraversare. L’operazione complessiva mi dà la percezione completa dello spazio, il vicino e il lontano, tutte le prospettive possibili.
Ne consegue che la memoria di cui parliamo non è quella proustiana ma un processo che opera la tessitura tra gli eventi, consente di compararli, rendendo possibile la continuità del vissuto esperienziale.
Riassumiamo dunque, parafando il bel libro di Brunetta (Gian Piero Brunetta, Il viaggio dell’iconauta, Marsilio, Venezia, 1997) per dire che il nostro spettatore ha molti poteri che hanno a che fare con la modernità e con il mondo classico, la scienza e la magia naturale, il visuale e le sopravvivenze dell’oralità: caccia la fonte primaria di alimentazione culturale ed emotiva nell’immenso territorio delle immagini; può soggiogare i tempi e gli spazi, viaggiando in ogni luogo anche immaginario. Questo può farlo perché coesistono armoniosamente in lui tutti i tempi, quelli circolari antichi, quelli ricorrenti delle fiere e delle feste, quelli del mito e del rito, quelli della civiltà industriale e delle macchine e il tempo del loisir che ne è la conseguenza; può far convivere le forme di cultura popolare (proprio il pop più bieco) con la più raffinata cultura alta urbana; capace di riconoscersi in una comunità sovranazionale che si riconosce nelle stesse forme di comunicazione, parte di una identica oikoumene; capace di accettare che tutti i sensi (grazie anche ai neuroni-specchio recentemente scoperti) vengano coinvolti nello svolgersi della realtà immersiva com-patendo letteralmente con quanto accade; di saper usare i propri sensi per spingersi in oceani sconfinati di immagini e sensazioni.
E, pur provando il senso di superamento dei confini del proprio Io non naufragherà dolcemente come Leopardi; di rendersi disponibile alla meraviglia e di qua partire per gustare tutte le altre passioni dell’anima; di sapersi muovere tra realtà esperienziale e realtà simbolica, ora mescolandole ora tenendole separate da fruitore maturo; disposto a lasciar invadere i propri paesaggi interiori da immagini archetipiche, da richiami provenienti dal mondo dei miti, dal folklore, dal perturbante, dall’alterità; di essere sempre stato la cavia ideale di tutti gli esperimenti di secolarizzazione e diffusione del sapere dimostrandosi il punto ideale di congiunzione tra sfera umana e tecnologia.
Ricordiamo, parafrasando Cioran, che ogni epoca viene ricordata per le sue esagerazioni, per ciò che ha sovrastimato. In ultima analisi per ciò che l’ha contraddistinta, la nostra, credo concorderemo, si riconosce nell’enfasi posta sulla comunicazione digitale. Forse vale la pena di vedere come ci siamo arrivati da queste parti.